Premio Letterario Internazionale di Narrativa e Poesia "Giorgio La Pira"

Il mondo di oggi ha bisogno sempre più di persone che sappiano “convertire in investimenti di pace gli investimenti di guerra, trasformare in aratri le bombe, in astronavi di Pace i missili di guerraGiorgio La Pira

sabato 25 novembre 2017

LA VIOLENZA SULLE DONNE UN ASPETTO RILEVANTE DELLA DISUMANIZZAZIONE CHE INSIDIA LA NOSTRA SOCIETA’

PACE

Il fenomeno della violenza sulle donne e’ al centro della nostra preoccupata attenzione , a causa della sua crescente diffusione, della  pervasività che lo pone come trasversale rispetto alle fasce d’età e ai ceti sociali, delle forme variegate e di crescente crudeltà attraverso cui si manifesta: dall’umiliazione e oppressione psicologica, ai tentativi di abuso sessuale ( sempre traumatici anche qualora non siano consumati),agli attacchi diretti all’integrità psicofisica della donna ( dalla deturpazione con l’acido fino all’uccisione, talvolta perpetrata con mezzi efferati). Inoltre poiché la violenza si manifesta il più delle volte nel contesto familiare, una delle sue nefaste conseguenze è il coinvolgimento dei figli, vittime di “violenza assistita”, se non direttamente raggiunti dalla violenza fisica del marito-padre. Da tempo è in corso uno sforzo di riflessione collettiva per cogliere le radici di questo fenomeno, che sicuramente, a quanto asseriscono sociologi, storici e antropologi,  nasce all’interno del disomogeneo e asimmetrico sviluppo della condizione maschile e femminile nella nostra società: all’evoluzione complessiva femminile sembra non corrispondere un’ analoga trasformazione evolutiva dell’uomo, che appare sempre più spinto a reagire in termini  possessivi e vendicativi nei confronti della compagna che cerca un suo percorso di emancipazione; se a ciò si aggiunge l’allentamento dei legami familiari e lo” svuotamento” delle relazioni amorose, sempre meno cariche di sostanza e significato, e sempre più basate su elementi legati all’esteriorità e quindi sempre più precarie, si può ben comprendere come la fase di rottura di una relazione, specie se d’iniziativa della donna, può diventare l’inizio di una escalation drammatica di minacce, ritorsioni, tentativi di isolare la compagna dal suo contesto familiare e relazionale, fino all’aggressione fisica. Tuttavia, al di là di questi aspetti specifici che caratterizzano la relazione violenta fra l’uomo e la donna, è opportuno evidenziare come  questo fenomeno presenti un minimo comun denominatore con numerosi altri fenomeni aberranti che si manifestano nella nostra società, e che rivelano un rischio costante di violenza in diversi contesti sociali e relazionali, tutti caratterizzati da un’asimmetria di potere, di qualunque tipo, fra i protagonisti della relazione; in altre parole, ovunque vi siano soggetti “deboli”, per  sesso, per età, per condizioni fisiche, per svantaggio economico e socio-culturale, là si annida sempre più spesso il germe della sopraffazione e della violenza: violenza sui bambini degli asili nido da parte delle educatrici, violenza sugli anziani non autosufficienti da parte dei loro assistenti, violenza sui “barboni” e sui mendicanti, violenza sui compagni di scuola percepiti come più deboli, o disabili, attraverso l’odioso fenomeno del bullismo e del cyber-bullismo, che può anch’esso, al pari del femminicidio, condurre alla morte della vittima per suicidio ,per arrivare alla violenza ideologica “retrospettiva”, con gli insulti alle vittime del nazismo praticati nei campi di calcio ecc. ecc. Tutto ciò rappresenta un rischio concreto di disumanizzazione ad ampio raggio  all’interno di una civiltà per altri versi molto evoluta, e richiede uno sforzo intenso, approfondito, non settoriale di riflessione ed analisi da un punto di vista filosofico, storico-antropologico, spirituale, psicologico e sociologico, per una comprensione sempre meglio affinata delle determinanti e delle conseguenze, che potrebbero essere  a catena, di tale imbarbarimento. Per quanto concerne i tentativi di contrastare il fenomeno della violenza sulle donne occorre sicuramente affinare le metodiche di presa in carico sociale e sanitaria delle situazioni a rischio, attraverso i cosiddetti “Percorsi Rosa” ad esse dedicati, e soprattutto occorre mettere a punto, in ambito giudiziario, strumenti idonei a tutelare concretamente la donna che denuncia una condizione di maltrattamento, stalking o violenza, per contrastare la preoccupante attuale situazione in cui molte donne che hanno avuto il coraggio di denunciare il loro persecutore non sono poi state efficacemente protette dal medesimo, per una serie di pastoie legali che rischiano di ostacolare l’intervento della giustizia. Tuttavia, anche sul piano del contrasto al fenomeno, è utile tener presente la necessità di sviluppare un movimento culturale di ampia portata, che denunci ogni forma o rischio di disumanizzazione che incontriamo nella vita quotidiana, per il sostegno all”umano” contro la barbarie nei rapporti interpersonali e sociali, stimolando le istituzioni, comprese quelle giudiziarie, a produrre specifiche ed efficaci metodiche di protezione delle potenziali vittime e di   certo impedimento a nuocere per quanto riguarda gli oppressori. Pace, cultura, solidarietà, concetti fondativi del Centro Studi “Giuseppe Donati”, richiedono di essere declinati, in sinergia con tutte le forze operanti  su questo terreno di civiltà, anche in funzione della prevenzione della violenza sul più debole.
                                                               Marina Zampolini Agnoli

PACE, CULTURA, SOLIDARIETA' CONCETTI FONDATIVI DEL CENTRO STUDI "G. DONATI" DI PISTOIA

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

Anche la Liturgia è oggetto di discussione

La prima manifestazione della crisi di fede, o almeno l’aspetto suo più visibile, è l’abbandono abituale della messa festiva. Come ci è stato più volte segnalato, il fenomeno diventa sempre più preoccupante specialmente nel mondo dei giovani, dei quali ormai soltanto una piccolissima percentuale continua a compiere questo elementare atto di fede religiosa. Così ci dicono inchieste sostanzialmente serie, così ci conferma, senza necessità di ulteriori intermediari, la nostra esperienza diretta. Se domandiamo i motivi di questo abbandono, la prima risposta che ci viene data è che le celebrazioni della chiesa sono uggiose, ripetitive, monotone, senza mordente, in parte anche inintelligibili e perfino tristi. La correttezza dei gesti, l’uso della lingua volgare, la fedeltà rubricistica non riescono affatto a eliminare queste lacune che attualmente si avvertono più facilmente che nel passato. Forse le ricerche in atto per la celebrazione del Sinodo sui giovani ce lo diranno meglio e in modo più ragionato, ma l’impressione che in questo campo occorra il coraggio di profonde trasformazioni, anche oltre certe indicazioni del concilio sembra ben fondata. Gli interventi di papa Francesco vanno abbastanza chiaramente in questa direzione. In questi giorni, sottolineando contro i soliti nostalgici che “la riforma liturgica è irreversibile”, egli ha di nuovo affermato che “per sua natura la liturgia è ‘popolare’ e non clericale, essendo – come insegna l’etimologia – un’azione per il popolo, ma anche del popolo”. Più che tornare indietro, si tratta allora di andare avanti, non rivedendo le scelte fatte, “quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, come di interiorizzarne i principi ispiratori”. È necessario per questo togliere dalle nostre liturgie quella certa patina della clericalità e renderle più partecipate dal popolo che non ha soltanto la funzione di assistente.
Crediamo che per questo la prima cosa da fare sia l’ulteriore riduzione delle messe, che vanno preparate volta volta e non improvvisate. Ricordiamo che il detto “meno messe e più messa” era un titolo dell’Osservatore Romano di alcuni anni fa. Ogni messa dovrebbe essere un evento, un avvenimento, un fatto straordinario, se appena appena siamo convinti delle ricchezze teologiche, spirituali e pastorali che essa contiene. Certamente va messa al sicuro anche l’osservanza precisa delle rubriche sostanziali, ma, in contemporanea, va valorizzato l’elemento partecipativo, creativo, spontaneo del popolo orante. Si è dato nel passato molto spazio all’azione del cerimoniere, non si è invece pensato alla funzione di un animatore preparato e competente. In questo passaggio (dal cerimoniere all’animatore) è possibile riscontrare una necessità che si impone ai nostri giorni. Un animatore invisibile ma illuminato, in possesso anche delle tecniche messe oggi a nostra disposizione: le attenzioni e le risorse non sono mai sufficienti per un atto così importante come la celebrazione di una messa. A questo servizio potrebbero essere riconosciute nel futuro anche la dignità e le caratteristiche di un ministero vero e proprio.
Una cosa da raccomandare fortemente per le nostre celebrazioni è la creazione di un clima di festa e di gioia, che chiama in causa anche la fantasia, l’invenzione, la creatività, senza che tutto questo urti e disturbi la severità della norma stabilita dalla tradizione e dalla competente autorità. È sempre possibile infatti coniugare sapientemente spontaneità e legge, libertà e regola, fantasia e tradizione. Una fatica in più, ma una fatica benemerita perché il popolo cristiano trovi nei suoi incontri quel sentimento di pienezza e di ricarica di cui oggi ciascuno ha particolarmente bisogno.
Chesterton affermava che la gioia è il grande segreto del cristiano, ma da più parti, a volte anche con espressioni sferzanti, ci viene rimproverato che certo nostro modo di vivere, di comportarsi, di celebrare, è freddo, noioso, distaccato, assente. La prima smentita dovrebbe essere la messa, l’assemblea in cui la chiesa realizza e esprime pienamente se stessa. Forse il contatto con altre tradizioni liturgiche o tipi di accoglienza potrebbero indicarci qualcosa per migliorare i nostri riti. I tempi sono profondamente cambiati, dobbiamo prenderne atto, con l’aiuto di coloro che si aprono ora alla vita. Le tendenze, le preferenze, le scelte non sono più quelle di prima. Non è certo colpa dei giovani se essi sono diversi da noi. Quante cose ha spazzato via la mentalità post-moderna che in pochi anni ha preso saldamente possesso dei nostri paesi. Non è affatto una inesattezza interpretare i loro abbandoni come un segno dei tempi, come un richiamo urgente che ora ci interpella.
La teologia sta riflettendo sulle vie di accesso che anche la post-modernità offre al messaggio evangelico. Il Signore è al di sopra dei tempi e le sue parole hanno il valore dell’eternità. “Cristo ieri e oggi. Egli è lo stesso nei secoli”. Bisogna prenderne atto e trarne coraggiosamente tutte le conseguenze. Non nel rimpianto, ma nella serenità e nell’entusiasmo. Con lui la chiesa cammina nella storia.
Giordano Frosini

sabato 18 novembre 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

I nostri giovani in caduta libera

La chiamano generazione della rete, quella che va dai 15 ai 24 anni, perché cresciuta nell’era digitale, ed è la prima passata in rassegna per le sue preferenze e i suoi comportamenti in una recente inchiesta pubblicata sul quotidiano nazionale La Repubblica dal noto sociologo Ilvo Diamanti. Tutto, o quasi, sostanzialmente regolare nei confronto fra i dati attuali e quelli raccolti sugli stessi argomenti 14 anni fa, cioè nel 2003, fuorché in due casi, quello della politica e soprattutto quello della religione, dove si assiste a un fenomeno di vera e propria caduta libera, con un passaggio di apprezzamento e di partecipazione dal 25 al 7%. Un fatto che suggerisce all’analista l’uso dell’espressione popolare: “Non c’è più religione”. Un modo di dire a cui si ricorre spesso quasi per scherzo, ma che in questo caso va preso tremendamente sul serio e non può che preoccupare seriamente l’intero mondo dei credenti. È vero che la media nazionale, passando, nello stesso tempo, dal 37 al 27%, appare assai meno rovinosa, ma non è detto che la generazione in questione, crescendo in età, cresca anche nella sua stima e nel suo attaccamento alla religione dei padri. Potrebbe anche succedere che il divario rimanesse uguale o addirittura aumentasse ancora. Il trend, la tendenza sembra proprio andare in questa direzione. Anche il calo della stima alla politica, meno rovinoso, non è certo un dato positivo e sottolinea ancora di più la tendenza individualistica che caratterizza la nostra gioventù.
Dinanzi a constatazioni del genere, gli atteggiamenti possibili sono due: o lo scoraggiamento e la depressione, che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione, perché non si confà per nessuna ragione e in nessun momento al cristiano; oppure un celere rientro in se stessi per un severo esame di coscienza in tutti coloro che, pure se in  vario modo, avvertono i pericoli che una situazione del genere nasconde per il presente e più ancora per il futuro della nostra società. Anche il laicista non dovrebbe considerarsi del tutto estraneo a una notizia del genere, dal momento che il disordine che ne sta uscendo non potrà non coinvolgere anche lui. In fin dei conti, a tutti e due, il credente e il non credente, rivolgeva le sue parole di fuoco il filosofo Federico Nietzsche quando, più di un secolo fa, scrisse la terrificante storia del pazzo che andava gridando senza posa sulla piazza del mercato l’annuncio della morte di Dio: “Dio è morto, l’abbiamo ucciso noi”. Il sovvertimento o, peggio ancora, il nichilismo dei valori non risparmierà nessuno: “Non si è fatto più freddo? Non viene continuamente la notte e più notte? Non bisogna accendere lanterne di mattina?”. Le conseguenze del gesto folle si sarebbero viste più tardi. Il pazzo è anche lucido: “Il mio tempo non è ancora venuto… Lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce delle stelle ha bisogno di tempo, le gesta hanno bisogno di tempo”. Ma ora, ci viene assicurato, il fantasma del nichilismo si aggira intorno a noi. L’occidente ne è sempre di più invaso.
Troppo forti queste parole per descrivere la nostra situazione? Troppo drammatico il tono di questo annuncio? Ma il nichilismo ha trovato nel nostro tempo anche vie più pacifiche e più feriali per penetrare nel nostro mondo, per sconvolgere l’animo dei nostri ragazzi, per mettere a repentaglio l’intero mondo dei valori e così rovesciare la geografia del pensiero e della prassi dell’intera società. È la cosiddetta post-modernità che ha soppiantato l’epoca tronfia della ragione e della potenza e, insieme a effetti certamente positivi, ha anche prodotto vuoti incolmabili nelle strutture razionali e morali dell’uomo e della società, in particolare del mondo giovanile, il più esposto e il meno capace di auto-difesa dinanzi alle sempre più violente provocazioni che lo colpiscono e lo avvolgono da ogni parte.
La denuncia viene da parte religiosa ma anche da parte di tutti coloro (e non sono affatto molti) che non intendono abdicare a quanto di più grande e di più nobile ci è stato tramandato dal passato, in particolare ai valori della trascendenza, gli unici capaci di dare una risposta esaustiva alla domanda del senso della vita. Un’offerta rifiutata forse inconsapevolmente che spiazza l’uomo e lo lascia in balia del non-senso e della disperazione. “Figli del nulla”: l’espressione non è un’offesa alla famiglia, che molte volte soffre della sbandata dei propri figli. E non ci può essere una qualifica più deprimente e più rattristante di questa. E noi uomini di chiesa che rimaniamo incapaci di comunicare ai figli dell’era digitale l’offerta esaltante della divinizzazione!
Difficile, difficilissimo sapere come comportarsi in una situazione come questa. Attendiamo con fiducia il Sinodo sui giovani voluto da papa Francesco per chiarirci le idee e individuare qualche via sicura da percorrere. Una cosa però non possiamo non capirla fin da ora: non c’è tempo da perdere, la chiesa deve ritrovare con urgenza le sue energie migliori, portare a compimento i tanti progetti sospesi, aggiornare senza paura i suoi comportamenti secondo i segni dei tempi e le mozioni dello Spirito Santo.
Giordano Frosini

martedì 14 novembre 2017

Giornata della pace 2017

Incontro con don Vincenzo Russo

Lunedì 13 novembre, alle 9 nell’aula magna del Liceo statale “N. Forteguerri” di Pistoia, l’ultimo atto della tre giorni del premio La Pira promosso e organizzato dal Centro Studi “G. Donati”. Alcune classi del liceo hanno partecipato all’incontro con il cappellano del carcere fiorentino di Sollicciano, don Vincenzo Russo, e due ex-detenuti, Cataldo e Franco.
Il tema dell’incontro dal titolo “Visitare i carcerati” era quello della vita e delle condizioni di vita nelle carceri. Una testimonianza accompagnata da un video realizzato dagli stessi carcerati ha impietosamente descritto le condizioni disumane nelle quali sono costretti, fra sovraffollamento e mancanza di una reale possibilità di pene alternative alla detenzione. Gli studenti molto interessati a un tema poco affrontato nelle scuole, per non dire totalmente dimenticato, hanno partecipato con riflessioni e domande che sono andate subito a cogliere il centro della questione: cosa è il carcere al di là di quello che del carcere si dice. Ci sono delle situazione “carcerogene” dice Franco che con questa parola crea un neologismo capace di legare la malattia alle condizioni di vita di dove il recluso è costretto a vivere a causa delle scelte sbagliate fatte, come lui stesso ammette. “Dentro il carcere c’è il segreto della vita fuori dal carcere”, afferma con forza don Vincenzo: mancanza di lavoro, emarginazione, disagio sociale. È il luogo che dovrebbe essere l’occasione di reinserimento del condannato all’interno della società, come la stessa costituzione italiana afferma in modo chiaro e netto, e che invece diventa l’esperienza della disumanità dove si è costretti a pagare moltiplicati gli errori fatti. Il carcere diventa così generatore di ingiustizia. Condizioni carcerarie diverse, modalità alternative per scontare la pena, differenti politiche che siano più attente al carcerato che rimane uomo anche quando colpevole, sono i passi che una società moderna e civile dovrebbe compiere per potersi dichiarare tale a tutti gli effetti, in una valorizzazione di quel bello che è presente anche nelle periferie della società. E compiere finalmente il passaggio dalla reclusione mortifera della cella chiusa a una ritrovata dignità che si esprime nel poter rientrare in possesso delle chiavi per liberare finalmente e definitivamente la propria vita.

Alessandro Carmignani
Responsabile cultura Centro Studi “G. Donati”