Premio Letterario Internazionale di Narrativa e Poesia "Giorgio La Pira"

Il mondo di oggi ha bisogno sempre più di persone che sappiano “convertire in investimenti di pace gli investimenti di guerra, trasformare in aratri le bombe, in astronavi di Pace i missili di guerraGiorgio La Pira

martedì 19 dicembre 2017

Buon Natale

Dal Centro Studi "G. Donati" di Pistoia

"Non di muri ha bisogno la Terra Santa ma di ponti!"

Buon Natale!

Giancarlo Niccolai, don Alessandro Carmignani
Presidente e Responsabile della cultura

("Piccola Betlemme" è stata scritta da Padre Ibrahim Faltas, Premio Internazionale "G. La Pira" nel 2004)

venerdì 8 dicembre 2017

Editoriale di mons. Frosini uscito su "La Vita"

L’avvento, il tempo tra due venute

L’incanto del Natale ritorna puntualmente appena cominciano i freddi dell’inverno e i monti si ammantano delle prime nevi. Un fascino sempre nuovo anche se antico, come i presepi che lo narrano, i canti che lo celebrano, le luci che lo riscaldano. L’Avvento è l’inizio ufficiale di questa attesa, con il ripetuto invito all’intera comunità cristiana a oltrepassare le pur preziose suggestioni del sentimento e a interpretare e vivere l’evento con lo sguardo penetrante della fede. Tempo di attesa e di speranza, tempo di forti pensieri e di profondi richiami che, strappandoci dalle usuali preoccupazioni quotidiane, ci riportano alle grandi visioni della storia della salvezza, nelle quali è segnato il cammino dell’umanità verso la sua destinazione finale. La parola di origine latina indica infatti un avvenimento, un fatto, un evento, inciso a caratteri indelebili nel grande libro delle vicende umane. Più precisamente esso significa “venuta”: la venuta sorprendente di un bambino nell’umiltà della grotta di Betlemme, la cui vicenda rimanda però a una seconda venuta, questa volta nella gloria e nello splendore, quando i tempi arriveranno alla loro pienezza e il Regno annunciato e instaurato sarà giunto alle dimensioni stabilite.
È così che la storia che noi percorriamo con i nostri passi, con tutte le storture che sembrano sommergerci, ma anche con le splendide pagine scritte dai seguaci di quel bambino, è come costretta fra due venute. Il tempo di un’attesa compiuta e di un’attesa che si apre, di una speranza realizzata e di una speranza rinnovata, di una salvezza iniziata ma che rimanda oltre perché incompleta. “Salvi nella speranza”, dice con impareggiabile sinteticità e altrettanta precisione l’apostolo Paolo. Viviamo nel provvisorio, nel temporaneo, nella sospensione, nell’attesa solo in parte realizzata. “Già e non ancora”, hanno detto i teologi con una espressione che ha fatto fortuna e merita di essere continuata. O anche “inter tempora”, nel frattempo, nel segmento, nella limitazione.
Conoscere il segreto della storia è certamente importante, perché qualifica e definisce la nostra situazione e soddisfa i nostri pensieri, ma non è tutto. C’è ancora qualcosa di più da sapere e soprattutto da fare. Perché questo spazio intermedio va riempito con la nostra attività e operosità, arricchito con le nostre opere buone, impreziosito dalla nostra sollecitudine. Il tempo dell’attesa è anche il tempo concesso all’umanità perché con Dio prenda parte attiva alla preparazione dell’evento finale, secondo quanto il Creatore aveva stabilito fin dall’alba della creazione. Il Signore è partito per un paese lontano, come ci hanno raccontato le belle parabole delle ultime domeniche dell’anno liturgico. E nel partire ha distribuito tanti doni all’umanità: questi doni non vanno nascosti sottoterra, ma vanno fatti fruttificare nei campi di lavoro che il Signore ha affidato in parte a tutti gli uomini, nella loro pienezza ai cristiani, che per definizione sono “coloro che sanno”, coloro che conoscono i segreti della storia. Si tratta anzitutto dell’evangelizzazione, perché tutti i popoli di ogni tempo e di ogni luogo hanno diritto a conoscere l’Evangelii gaudium, il lieto annuncio della salvezza; in secondo luogo, della formazione di una società rinnovata dall’amore, liberata dai vincoli mortali dell’egoismo, più umana, più aperta, più giusta, più fraterna, più solidale; in ultimo, del compimento della creazione, un giorno lontano affidata all’uomo come un dono e come un compito. Un universo incompleto: ci sono ancora infinite ricchezze da scoprire e valorizzare, ci sono ancora molti mali da estirpare. Perché Dio è per essenza il nemico del male, di ogni male, l’Anti-male. Nessun male, nemmeno la morte, potrà essere presente nella Città della fine.
Questo commento dell’Avvento, del Natale, della vocazione cristiana in generale, nasce dalla lettura approfondita dei documenti del concilio Vaticano II, che aprono al credente prospettive nuove e suggestive verso queste infinite direzioni. Non basta applicare i magnifici testi della liturgia dell’Avvento alla propria vita spirituale, anche se evidentemente questa deve godere di un’attenzione privilegiata e particolare. L’uomo è collaboratore di Dio nell’opera di salvezza: una dignità e una responsabilità incomparabili, che formano uno degli strati più profondi e più benemeriti dell’insegnamento conciliare e che il nostro popolo ancora non conosce.
Il rischio è quello di ridurre il cristianesimo a una piccola e limitata sfera di astratta spiritualità, privandolo in tal modo di pensieri e orientamenti di fondo capaci di galvanizzare l’attenzione dell’uomo di oggi, in particolare dei giovani che, per accendersi di entusiasmo e di ardore, hanno bisogno di impegni forti e di grandi ideali. Le pagine conciliari contengono espressioni coraggiose e luminose in questo senso. Una meravigliosa catechesi che renderebbe certamente più serio il Natale, troppe volte svilito in un sentimentalismo vuoto e senza conseguenze.
A queste profondità è evidente che l’Avvento non dura soltanto quattro settimane, ma tutta la vita, anzi per tutta la storia. L’intero tempo che ci rimane è Avvento, attesa e preparazione della seconda venuta, quella che, anche per la collaborazione dell’uomo, porrà fine alla salvezza, cui stanno ponendo mano cielo e terra.
Giordano Frosini

giovedì 7 dicembre 2017

Concorso fotografico

CENTRO  STUDI  "GIUSEPPE  DONATI "
CONCORSO  FOTOGRAFICO
“PISTOIA  2017:
LE  PIU’  BELLE  IMMAGINI  DELLA CAPITALE  DELLA  CULTURA”

L’anno 2017 volge al termine: nasce quindi l’esigenza di fissare nella memoria collettiva, anche attraverso le immagini, il ricordo di questa straordinaria occasione che la città ha avuto di mostrare al meglio la propria bellezza e la propria ricchezza storica e culturale. Molti fotoamatori, tanti semplici cittadini desiderosi di documentare luoghi ed eventi di Pistoia Capitale della Cultura, numerosi turisti alla scoperta di bellezze magari fino a quel momento poco conosciute, hanno certamente scattato e continuano a scattare foto interessanti e suggestive della città. A tutti loro il Centro Studi “ Giuseppe Donati” offre la possibilità di  partecipare al concorso fotografico a conclusione del quale le foto ritenute più significative diventeranno oggetto di una apposita pubblicazione, a cura del Centro stesso.  Per partecipare basta inviare le proprie foto a colori, nel numero massimo di 4, all’indirizzo e-mail del Centro Studi: cstudidonati@gmail.com , entro il 15 gennaio 2018. Saranno consegnati premi di rappresentanza in un incontro da stabilire presso il Centro “G.Donati “.

                                                       La collaboratrice del Centro
                                                       Marina Zampolini Agnoli

sabato 25 novembre 2017

LA VIOLENZA SULLE DONNE UN ASPETTO RILEVANTE DELLA DISUMANIZZAZIONE CHE INSIDIA LA NOSTRA SOCIETA’

PACE

Il fenomeno della violenza sulle donne e’ al centro della nostra preoccupata attenzione , a causa della sua crescente diffusione, della  pervasività che lo pone come trasversale rispetto alle fasce d’età e ai ceti sociali, delle forme variegate e di crescente crudeltà attraverso cui si manifesta: dall’umiliazione e oppressione psicologica, ai tentativi di abuso sessuale ( sempre traumatici anche qualora non siano consumati),agli attacchi diretti all’integrità psicofisica della donna ( dalla deturpazione con l’acido fino all’uccisione, talvolta perpetrata con mezzi efferati). Inoltre poiché la violenza si manifesta il più delle volte nel contesto familiare, una delle sue nefaste conseguenze è il coinvolgimento dei figli, vittime di “violenza assistita”, se non direttamente raggiunti dalla violenza fisica del marito-padre. Da tempo è in corso uno sforzo di riflessione collettiva per cogliere le radici di questo fenomeno, che sicuramente, a quanto asseriscono sociologi, storici e antropologi,  nasce all’interno del disomogeneo e asimmetrico sviluppo della condizione maschile e femminile nella nostra società: all’evoluzione complessiva femminile sembra non corrispondere un’ analoga trasformazione evolutiva dell’uomo, che appare sempre più spinto a reagire in termini  possessivi e vendicativi nei confronti della compagna che cerca un suo percorso di emancipazione; se a ciò si aggiunge l’allentamento dei legami familiari e lo” svuotamento” delle relazioni amorose, sempre meno cariche di sostanza e significato, e sempre più basate su elementi legati all’esteriorità e quindi sempre più precarie, si può ben comprendere come la fase di rottura di una relazione, specie se d’iniziativa della donna, può diventare l’inizio di una escalation drammatica di minacce, ritorsioni, tentativi di isolare la compagna dal suo contesto familiare e relazionale, fino all’aggressione fisica. Tuttavia, al di là di questi aspetti specifici che caratterizzano la relazione violenta fra l’uomo e la donna, è opportuno evidenziare come  questo fenomeno presenti un minimo comun denominatore con numerosi altri fenomeni aberranti che si manifestano nella nostra società, e che rivelano un rischio costante di violenza in diversi contesti sociali e relazionali, tutti caratterizzati da un’asimmetria di potere, di qualunque tipo, fra i protagonisti della relazione; in altre parole, ovunque vi siano soggetti “deboli”, per  sesso, per età, per condizioni fisiche, per svantaggio economico e socio-culturale, là si annida sempre più spesso il germe della sopraffazione e della violenza: violenza sui bambini degli asili nido da parte delle educatrici, violenza sugli anziani non autosufficienti da parte dei loro assistenti, violenza sui “barboni” e sui mendicanti, violenza sui compagni di scuola percepiti come più deboli, o disabili, attraverso l’odioso fenomeno del bullismo e del cyber-bullismo, che può anch’esso, al pari del femminicidio, condurre alla morte della vittima per suicidio ,per arrivare alla violenza ideologica “retrospettiva”, con gli insulti alle vittime del nazismo praticati nei campi di calcio ecc. ecc. Tutto ciò rappresenta un rischio concreto di disumanizzazione ad ampio raggio  all’interno di una civiltà per altri versi molto evoluta, e richiede uno sforzo intenso, approfondito, non settoriale di riflessione ed analisi da un punto di vista filosofico, storico-antropologico, spirituale, psicologico e sociologico, per una comprensione sempre meglio affinata delle determinanti e delle conseguenze, che potrebbero essere  a catena, di tale imbarbarimento. Per quanto concerne i tentativi di contrastare il fenomeno della violenza sulle donne occorre sicuramente affinare le metodiche di presa in carico sociale e sanitaria delle situazioni a rischio, attraverso i cosiddetti “Percorsi Rosa” ad esse dedicati, e soprattutto occorre mettere a punto, in ambito giudiziario, strumenti idonei a tutelare concretamente la donna che denuncia una condizione di maltrattamento, stalking o violenza, per contrastare la preoccupante attuale situazione in cui molte donne che hanno avuto il coraggio di denunciare il loro persecutore non sono poi state efficacemente protette dal medesimo, per una serie di pastoie legali che rischiano di ostacolare l’intervento della giustizia. Tuttavia, anche sul piano del contrasto al fenomeno, è utile tener presente la necessità di sviluppare un movimento culturale di ampia portata, che denunci ogni forma o rischio di disumanizzazione che incontriamo nella vita quotidiana, per il sostegno all”umano” contro la barbarie nei rapporti interpersonali e sociali, stimolando le istituzioni, comprese quelle giudiziarie, a produrre specifiche ed efficaci metodiche di protezione delle potenziali vittime e di   certo impedimento a nuocere per quanto riguarda gli oppressori. Pace, cultura, solidarietà, concetti fondativi del Centro Studi “Giuseppe Donati”, richiedono di essere declinati, in sinergia con tutte le forze operanti  su questo terreno di civiltà, anche in funzione della prevenzione della violenza sul più debole.
                                                               Marina Zampolini Agnoli

PACE, CULTURA, SOLIDARIETA' CONCETTI FONDATIVI DEL CENTRO STUDI "G. DONATI" DI PISTOIA

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

Anche la Liturgia è oggetto di discussione

La prima manifestazione della crisi di fede, o almeno l’aspetto suo più visibile, è l’abbandono abituale della messa festiva. Come ci è stato più volte segnalato, il fenomeno diventa sempre più preoccupante specialmente nel mondo dei giovani, dei quali ormai soltanto una piccolissima percentuale continua a compiere questo elementare atto di fede religiosa. Così ci dicono inchieste sostanzialmente serie, così ci conferma, senza necessità di ulteriori intermediari, la nostra esperienza diretta. Se domandiamo i motivi di questo abbandono, la prima risposta che ci viene data è che le celebrazioni della chiesa sono uggiose, ripetitive, monotone, senza mordente, in parte anche inintelligibili e perfino tristi. La correttezza dei gesti, l’uso della lingua volgare, la fedeltà rubricistica non riescono affatto a eliminare queste lacune che attualmente si avvertono più facilmente che nel passato. Forse le ricerche in atto per la celebrazione del Sinodo sui giovani ce lo diranno meglio e in modo più ragionato, ma l’impressione che in questo campo occorra il coraggio di profonde trasformazioni, anche oltre certe indicazioni del concilio sembra ben fondata. Gli interventi di papa Francesco vanno abbastanza chiaramente in questa direzione. In questi giorni, sottolineando contro i soliti nostalgici che “la riforma liturgica è irreversibile”, egli ha di nuovo affermato che “per sua natura la liturgia è ‘popolare’ e non clericale, essendo – come insegna l’etimologia – un’azione per il popolo, ma anche del popolo”. Più che tornare indietro, si tratta allora di andare avanti, non rivedendo le scelte fatte, “quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, come di interiorizzarne i principi ispiratori”. È necessario per questo togliere dalle nostre liturgie quella certa patina della clericalità e renderle più partecipate dal popolo che non ha soltanto la funzione di assistente.
Crediamo che per questo la prima cosa da fare sia l’ulteriore riduzione delle messe, che vanno preparate volta volta e non improvvisate. Ricordiamo che il detto “meno messe e più messa” era un titolo dell’Osservatore Romano di alcuni anni fa. Ogni messa dovrebbe essere un evento, un avvenimento, un fatto straordinario, se appena appena siamo convinti delle ricchezze teologiche, spirituali e pastorali che essa contiene. Certamente va messa al sicuro anche l’osservanza precisa delle rubriche sostanziali, ma, in contemporanea, va valorizzato l’elemento partecipativo, creativo, spontaneo del popolo orante. Si è dato nel passato molto spazio all’azione del cerimoniere, non si è invece pensato alla funzione di un animatore preparato e competente. In questo passaggio (dal cerimoniere all’animatore) è possibile riscontrare una necessità che si impone ai nostri giorni. Un animatore invisibile ma illuminato, in possesso anche delle tecniche messe oggi a nostra disposizione: le attenzioni e le risorse non sono mai sufficienti per un atto così importante come la celebrazione di una messa. A questo servizio potrebbero essere riconosciute nel futuro anche la dignità e le caratteristiche di un ministero vero e proprio.
Una cosa da raccomandare fortemente per le nostre celebrazioni è la creazione di un clima di festa e di gioia, che chiama in causa anche la fantasia, l’invenzione, la creatività, senza che tutto questo urti e disturbi la severità della norma stabilita dalla tradizione e dalla competente autorità. È sempre possibile infatti coniugare sapientemente spontaneità e legge, libertà e regola, fantasia e tradizione. Una fatica in più, ma una fatica benemerita perché il popolo cristiano trovi nei suoi incontri quel sentimento di pienezza e di ricarica di cui oggi ciascuno ha particolarmente bisogno.
Chesterton affermava che la gioia è il grande segreto del cristiano, ma da più parti, a volte anche con espressioni sferzanti, ci viene rimproverato che certo nostro modo di vivere, di comportarsi, di celebrare, è freddo, noioso, distaccato, assente. La prima smentita dovrebbe essere la messa, l’assemblea in cui la chiesa realizza e esprime pienamente se stessa. Forse il contatto con altre tradizioni liturgiche o tipi di accoglienza potrebbero indicarci qualcosa per migliorare i nostri riti. I tempi sono profondamente cambiati, dobbiamo prenderne atto, con l’aiuto di coloro che si aprono ora alla vita. Le tendenze, le preferenze, le scelte non sono più quelle di prima. Non è certo colpa dei giovani se essi sono diversi da noi. Quante cose ha spazzato via la mentalità post-moderna che in pochi anni ha preso saldamente possesso dei nostri paesi. Non è affatto una inesattezza interpretare i loro abbandoni come un segno dei tempi, come un richiamo urgente che ora ci interpella.
La teologia sta riflettendo sulle vie di accesso che anche la post-modernità offre al messaggio evangelico. Il Signore è al di sopra dei tempi e le sue parole hanno il valore dell’eternità. “Cristo ieri e oggi. Egli è lo stesso nei secoli”. Bisogna prenderne atto e trarne coraggiosamente tutte le conseguenze. Non nel rimpianto, ma nella serenità e nell’entusiasmo. Con lui la chiesa cammina nella storia.
Giordano Frosini

sabato 18 novembre 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

I nostri giovani in caduta libera

La chiamano generazione della rete, quella che va dai 15 ai 24 anni, perché cresciuta nell’era digitale, ed è la prima passata in rassegna per le sue preferenze e i suoi comportamenti in una recente inchiesta pubblicata sul quotidiano nazionale La Repubblica dal noto sociologo Ilvo Diamanti. Tutto, o quasi, sostanzialmente regolare nei confronto fra i dati attuali e quelli raccolti sugli stessi argomenti 14 anni fa, cioè nel 2003, fuorché in due casi, quello della politica e soprattutto quello della religione, dove si assiste a un fenomeno di vera e propria caduta libera, con un passaggio di apprezzamento e di partecipazione dal 25 al 7%. Un fatto che suggerisce all’analista l’uso dell’espressione popolare: “Non c’è più religione”. Un modo di dire a cui si ricorre spesso quasi per scherzo, ma che in questo caso va preso tremendamente sul serio e non può che preoccupare seriamente l’intero mondo dei credenti. È vero che la media nazionale, passando, nello stesso tempo, dal 37 al 27%, appare assai meno rovinosa, ma non è detto che la generazione in questione, crescendo in età, cresca anche nella sua stima e nel suo attaccamento alla religione dei padri. Potrebbe anche succedere che il divario rimanesse uguale o addirittura aumentasse ancora. Il trend, la tendenza sembra proprio andare in questa direzione. Anche il calo della stima alla politica, meno rovinoso, non è certo un dato positivo e sottolinea ancora di più la tendenza individualistica che caratterizza la nostra gioventù.
Dinanzi a constatazioni del genere, gli atteggiamenti possibili sono due: o lo scoraggiamento e la depressione, che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione, perché non si confà per nessuna ragione e in nessun momento al cristiano; oppure un celere rientro in se stessi per un severo esame di coscienza in tutti coloro che, pure se in  vario modo, avvertono i pericoli che una situazione del genere nasconde per il presente e più ancora per il futuro della nostra società. Anche il laicista non dovrebbe considerarsi del tutto estraneo a una notizia del genere, dal momento che il disordine che ne sta uscendo non potrà non coinvolgere anche lui. In fin dei conti, a tutti e due, il credente e il non credente, rivolgeva le sue parole di fuoco il filosofo Federico Nietzsche quando, più di un secolo fa, scrisse la terrificante storia del pazzo che andava gridando senza posa sulla piazza del mercato l’annuncio della morte di Dio: “Dio è morto, l’abbiamo ucciso noi”. Il sovvertimento o, peggio ancora, il nichilismo dei valori non risparmierà nessuno: “Non si è fatto più freddo? Non viene continuamente la notte e più notte? Non bisogna accendere lanterne di mattina?”. Le conseguenze del gesto folle si sarebbero viste più tardi. Il pazzo è anche lucido: “Il mio tempo non è ancora venuto… Lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce delle stelle ha bisogno di tempo, le gesta hanno bisogno di tempo”. Ma ora, ci viene assicurato, il fantasma del nichilismo si aggira intorno a noi. L’occidente ne è sempre di più invaso.
Troppo forti queste parole per descrivere la nostra situazione? Troppo drammatico il tono di questo annuncio? Ma il nichilismo ha trovato nel nostro tempo anche vie più pacifiche e più feriali per penetrare nel nostro mondo, per sconvolgere l’animo dei nostri ragazzi, per mettere a repentaglio l’intero mondo dei valori e così rovesciare la geografia del pensiero e della prassi dell’intera società. È la cosiddetta post-modernità che ha soppiantato l’epoca tronfia della ragione e della potenza e, insieme a effetti certamente positivi, ha anche prodotto vuoti incolmabili nelle strutture razionali e morali dell’uomo e della società, in particolare del mondo giovanile, il più esposto e il meno capace di auto-difesa dinanzi alle sempre più violente provocazioni che lo colpiscono e lo avvolgono da ogni parte.
La denuncia viene da parte religiosa ma anche da parte di tutti coloro (e non sono affatto molti) che non intendono abdicare a quanto di più grande e di più nobile ci è stato tramandato dal passato, in particolare ai valori della trascendenza, gli unici capaci di dare una risposta esaustiva alla domanda del senso della vita. Un’offerta rifiutata forse inconsapevolmente che spiazza l’uomo e lo lascia in balia del non-senso e della disperazione. “Figli del nulla”: l’espressione non è un’offesa alla famiglia, che molte volte soffre della sbandata dei propri figli. E non ci può essere una qualifica più deprimente e più rattristante di questa. E noi uomini di chiesa che rimaniamo incapaci di comunicare ai figli dell’era digitale l’offerta esaltante della divinizzazione!
Difficile, difficilissimo sapere come comportarsi in una situazione come questa. Attendiamo con fiducia il Sinodo sui giovani voluto da papa Francesco per chiarirci le idee e individuare qualche via sicura da percorrere. Una cosa però non possiamo non capirla fin da ora: non c’è tempo da perdere, la chiesa deve ritrovare con urgenza le sue energie migliori, portare a compimento i tanti progetti sospesi, aggiornare senza paura i suoi comportamenti secondo i segni dei tempi e le mozioni dello Spirito Santo.
Giordano Frosini

martedì 14 novembre 2017

Giornata della pace 2017

Incontro con don Vincenzo Russo

Lunedì 13 novembre, alle 9 nell’aula magna del Liceo statale “N. Forteguerri” di Pistoia, l’ultimo atto della tre giorni del premio La Pira promosso e organizzato dal Centro Studi “G. Donati”. Alcune classi del liceo hanno partecipato all’incontro con il cappellano del carcere fiorentino di Sollicciano, don Vincenzo Russo, e due ex-detenuti, Cataldo e Franco.
Il tema dell’incontro dal titolo “Visitare i carcerati” era quello della vita e delle condizioni di vita nelle carceri. Una testimonianza accompagnata da un video realizzato dagli stessi carcerati ha impietosamente descritto le condizioni disumane nelle quali sono costretti, fra sovraffollamento e mancanza di una reale possibilità di pene alternative alla detenzione. Gli studenti molto interessati a un tema poco affrontato nelle scuole, per non dire totalmente dimenticato, hanno partecipato con riflessioni e domande che sono andate subito a cogliere il centro della questione: cosa è il carcere al di là di quello che del carcere si dice. Ci sono delle situazione “carcerogene” dice Franco che con questa parola crea un neologismo capace di legare la malattia alle condizioni di vita di dove il recluso è costretto a vivere a causa delle scelte sbagliate fatte, come lui stesso ammette. “Dentro il carcere c’è il segreto della vita fuori dal carcere”, afferma con forza don Vincenzo: mancanza di lavoro, emarginazione, disagio sociale. È il luogo che dovrebbe essere l’occasione di reinserimento del condannato all’interno della società, come la stessa costituzione italiana afferma in modo chiaro e netto, e che invece diventa l’esperienza della disumanità dove si è costretti a pagare moltiplicati gli errori fatti. Il carcere diventa così generatore di ingiustizia. Condizioni carcerarie diverse, modalità alternative per scontare la pena, differenti politiche che siano più attente al carcerato che rimane uomo anche quando colpevole, sono i passi che una società moderna e civile dovrebbe compiere per potersi dichiarare tale a tutti gli effetti, in una valorizzazione di quel bello che è presente anche nelle periferie della società. E compiere finalmente il passaggio dalla reclusione mortifera della cella chiusa a una ritrovata dignità che si esprime nel poter rientrare in possesso delle chiavi per liberare finalmente e definitivamente la propria vita.

Alessandro Carmignani
Responsabile cultura Centro Studi “G. Donati”



sabato 30 settembre 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

Il dialogo con le altre religioni e la missione della chiesa

Per chi vuole essere fedele alle disposizioni della chiesa, l’ordine del giorno della missione e dell’evangelizzazione va aggiornato. Abbiamo già ricordato che Paolo VI nel 1975 aveva chiesto di ampliare la tematica in questione includendovi il pensiero sociale della chiesa; ora dobbiamo aggiungere che Giovanni Paolo II nel 1990 aveva chiesto di fare altrettanto con il dialogo interreligioso. Purtroppo siamo ancora a lamentare il colpevole ritardo di gran parte della chiesa per l’una e l’altra richiesta, che invece dovrebbero avere il valore di un ordine preciso e obbligatorio. Non c’è ragione al mondo che possa giustificare questo ritardo. Esso è semplicemente un atto di disubbidienza, che reca un danno non indifferente alla vita della chiesa e un motivo di nuove divisioni, di cui non si sentiva affatto il bisogno.
L’enciclica Redemptoris missio di san Giovanni Paolo II afferma testualmente al n. 55: “Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa”. Certo, un dialogo che deve andare di pari passo con la convinzione dell’unicità della missione di Cristo e della chiesa, come i cristiani hanno sempre affermato e insegnato nel corso della loro storia. L’induismo, il buddismo, il musulmanesimo e le altre religioni non salvano, però si riconosce loro un’azione positiva nell’opera di salvezza. Già il concilio Vaticano II era stato con loro molto generoso, riconoscendo i valori di cui sono in possesso, in qualche caso addirittura assai prima del cristianesimo. Ma il documento di Giovanni Paolo II va oltre, riconoscendo loro il valore di “mediazione partecipata”, cioè subordinata rispetto a quella di Gesù Cristo e della chiesa, capace comunque di portare a salvezza coloro che l’accettano e la mettono in pratica. Un’affermazione preziosa che sarà confermata più tardi dal documento della Congregazione della Dottrina della fede Dominus Jesus, il quale sprona e incoraggia i teologi a proseguire la loro riflessione su questa linea. È il massimo riconoscimento che tutti i cristiani sono chiamati a tributare loro con convinzione e sicurezza.
Le conclusioni per i cristiani sono così chiaramente delineate: accettazione di questa ultima grande apertura teologica, dialogo sereno con tutti coloro che appartengono ad altre religioni, superamento di ogni spirito fondamentalistico ed esclusivistico, senza rinunciare naturalmente alle proprie convinzioni, ma approfondendole con lo studio e la riflessione, rimanendo aperti a eventuali suggerimenti e complementi, pronti soprattutto a recepire e imitare gli esempi che non di rado vengono offerti a molti cristiani stanchi e rinunciatari. Il dialogo è da intendersi come il metodo regale di ogni opera di evangelizzazione. Ci soccorrono per questo atteggiamenti di pastori come il cardinal Tettamanzi e il nuovo arcivescovo di Milano, che proprio in questi giorni ha preso possesso della sua diocesi con un fraterno saluto ai fratelli e alle sorelle di religione musulmana.
Anche l’Evangelii gaudium di papa Francesco ricalca le stesse linee. In particolare, queste raccomandazioni valgono oggi per i seguaci del musulmanesimo, presenti fra noi in maniera sempre più massiccia e significativa. Ci sono notizie false da smentire (lo ha fatto in questi giorni il direttore di Repubblica), notizie esemplari da diffondere, soprattutto c’è per tutti un richiamo alla carità verso coloro che hanno lasciato tutto per ritrovare altrove ragioni di vita e di speranza. Una linea di rispetto, di stima, di fraternità. Ci ha insegnato papa Benedetto e lo ha ripetuto papa Francesco, l’evangelizzazione non avviene per proselitismo, ma per contatto e attrazione. Come sempre, la comunità cristiana è invitata ad andare controcorrente, perché nella vecchia Europa, ce l’hanno confermato le recentissime elezioni in Germania, si sta diffondendo un clima di appena attutito stampo razzista e xenofobo. Che poi tutto questo si faccia in nome del Vangelo, per difendere, come si dice, i valori cristiani messi in pericolo dai nuovi sopravvenuti (i nuovi “barbari”), è veramente strano e aberrante. I valori cristiani si difendono attuando i comandamenti dell’amore, dell’accoglienza, della solidarietà, che formano la sostanza prima del Vangelo. Coloro che ne sono beneficiari oggi non potranno mai dimenticare l’accoglienza che siamo stati capaci di accordare loro. Ma, al limite, anche questo conta poco: l’essenziale per la coscienza cristiana è aver compiuto il proprio dovere e avere onorato la fede che ci qualifica e di cui vogliamo essere gelosi custodi.
“Il dialogo interreligioso e l’annuncio, anche se non allo stesso livello, sono entrambi elementi autentici della missione evangelizzatrice della chiesa”. La presenza delle altre religioni in mezzo a noi è una sfida posta alla nostra attenzione, la nostra fede messa alla prova, a livello di convinzioni e soprattutto a livello di vita. Due vie da percorrere insieme. Per l’apostolo Pietro, il cristiano è colui che è sempre pronto a dare ragione della propria fede e della propria speranza.
Giordano Frosini

venerdì 22 settembre 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita" di Pistoia

Migrazioni: i quattro verbi di Papa Francesco

Li ha dettati il 21 febbraio di quest’anno, parlando ai partecipanti al Forum internazionale ‘Migrazioni e pace’. Sono: accogliere, proteggere, promuovere e integrare, e nella loro laconicità, esprimono una scelta strategica che impegna indistintamente tutti coloro che partecipano alla sofferenza dell’umanità di oggi e hanno a cuore le sorti di quella del futuro. Anche se declinati secondo le proprie possibilità e disponibilità, essi portano in sé il timbro cristiano dell’amore e della carità e insieme hanno la capacità di parlare al cuore di ogni uomo che, al fondo, conserva sempre sentimenti di solidarietà per i più poveri e più infelici. Di questa virtù insieme umana e cristiana, possiamo ricordare ancora la bella definizione che di essa ha dato Giovanni Paolo II in una sua non dimenticata enciclica: “Non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine o lontane. Al contrario è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”.
Un sentimento, di per sé, comune a tutti gli uomini, come ci ricordano anche le culture pre-cristiane, che già riuscivano a parlare questo linguaggio. Purtroppo il veleno dell’individualismo, che si è così pesantemente inoculato nella nostra società, ha cambiato radicalmente pensieri e modi di essere degli uomini di oggi. Un forte regresso rispetto al nostro lontano passato, chiaramente ma invano rintracciato da coloro che indagano sul cammino della storia morale dell’umanità. Una vittoria scandalosa dell’egocentrismo e del proprio benessere, che da tempo dominano sovrani nella società dell’opulenza e del consumismo. E così rinasce spontanea in noi la domanda che ci mette dinanzi alle nostre responsabilità e alle nostre infedeltà: si è dunque esaurita la forza dirompente del messaggio cristiano, che pure era riuscito in pochi decenni a cambiare radicalmente i pensieri e i costumi degli uomini dei tempi passati? Da sempre l’amore, la carità, la solidarietà sono le caratteristiche distintive del messaggio cristiano, il segno di riconoscimento della comunità cristiana: “Da questo riconosceranno che siete miei discepoli”.
Inutile girare intorno alle parole: qui si impone un severo esame di coscienza, perché i conti non tornano. E non tornano in proporzioni non solo preoccupanti, ma addirittura drammatiche. In circostanze come quella che stiamo vivendo, la comunità cristiana dovrebbe essere capace di esprimere con forza ancora maggiore, rispetto alle situazioni normali, la sua testimonianza e la sua esemplarità sulla gente che la circonda. Ma non è affatto così. Perché una grande parte di essa, conquistata dagli slogan divulgati con tanta larghezza dai mezzi della comunicazione sociale e dall’opinione pubblica, si è allineata all’andazzo della gente che chiede soltanto di non essere disturbata nel suo quieto vivere, come non succedesse nulla, e non di rado almeno implicitamente si è fatta anch’essa portatrice di una mentalità pericolosamente inclinata verso il razzismo. A questo punto, un giornale che si professa cristiano e cattolico ha il dovere di gridare allo scandalo e di richiamare tutti alla propria coerenza. Ne va della nostra serietà. Non si è cristiani per gioco o per scherzo. Si rileggano le parole del racconto finale della storia umana: “Ero forestiero… e mi avete rifiutato!”.
Sono parole di Gesù, parole che ci ripete continuamente almeno papa Francesco, così tanto ammirato e così poco ascoltato. Meno, molto meno dell’ultimo imbonitore politico che con i suoi appelli sostanzialmente blasfemi spera di conquistare la maggioranza politica e andare al governo. Uno spettacolo avvilente e triste. Aggravato dalla convinzione diffusa anche in coloro che frequentano la messa domenicale che la questione di cui stiamo parlando è di carattere politico e che per questo la chiesa non se ne occupi e “pensi ai fatti suoi”. Quante volte e per quanti motivi, ci tocca risentire frasi come questa anche da parte di coloro che dovrebbero farsi portatori di idee diverse. Certo la questione è anche politica, perché va regolata secondo ordine e intelligenza, ma è anche, è soprattutto, di carattere morale e chi la tratta con spirito egoistico compie un peccato, di cui dovrà rendere conto a Dio. Chi tocca l’uomo tocca Dio, sua unica immagine e altra incarnazione di Cristo: “Qualunque cosa avete fatto agli altri l’avete fatta a me”. Il catechismo si impara da coloro che il Signore ha posto come maestri della sua chiesa, non dalla televisione o da certi giornali.
Un appello accorato, il nostro, rivolto a coloro che ancora si considerano cristiani, che riconoscono al papa la facoltà di interpretare autenticamente il messaggio rivelato, che non intendono vendere la propria fede e nemmeno il proprio cervello a coloro che continuano a ripetere insegnamenti lontani anni luce dal Vangelo consegnatoci da Gesù.
Giordano Frosini

venerdì 8 settembre 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

“Un solo Signore”

Sono le parole con cui, in pieno regime nazista, un gruppo di teologi e cristiani “confessanti”, guidati dal grande Karl Barth, presero posizione, quasi come un giuramento, dinanzi alle provocazioni e alle persecuzioni dello stato tedesco, stretto da una delle più feroci dittature che la storia ricordi. Chi non ha dimenticato il clima di paura instaurato in Germania e presto esportato nei paesi alleati, fra cui l’Italia, sa bene di quale coraggio fossero animati coloro che presero parte a quella storica riunione. Non era in questione solo il posto di lavoro con il licenziamento o la libertà con il carcere o l’espulsione con l’esilio forzato: in gioco era la vita, perché il “signore” che comandava spargeva sangue e terrore dovunque arrivava il suo potere. Si ricordi soltanto il caso di Dietrich Bonhoeffer, che pagò con l’impiccagione in uno dei tanti lager della Germania la sua fede cristiana e la sua disubbidienza al regime imperante, che si ergeva a creatore indiscusso del diritto e della ragione. Il “signore” del momento, che con un atto di inimmaginabile superbia detronizzava il Signore e si collocava al suo posto. È storia di ieri, che nessuno (speriamo veramente nessuno) si sogna di ripetere, anche se purtroppo qualche segnale qua e là farebbe proprio pensare al contrario.
Un pensiero però che non sfiora nemmeno lontanamente chi scrive che, al termine di un’estate troppo calda in tutti i sensi, ricorda questi fatti, non per impaurire il lettore, ma per mettere in risalto il gesto di straordinaria coerenza di coloro che osarono ribellarsi contro un’opinione pubblica galvanizzata dalla propaganda e del tutto succube e allineata. Le piazze, non va dimenticato, erano piene di gente convinta, connivente e plaudente. Come fu possibile? Eppure la storia non si smentisce. Le foto sono lì a dimostrarlo.
Fra allora e ora una certa analogia esiste, lontana quanto si vuole, ma al fondo simile in certi suoi connotati e soprattutto in alcuni suoi effetti. Uno dei più grandi sociologi del nostro tempo, il polacco Zigmunt Bauman, con un suo stile personale che ha finito col convincere tutti, ha parlato della nostra epoca come di un’epoca liquida, che vuol dire mutevole, sdrucciolevole, senza fermezze e punti fermi, priva di leggi morali fisse e di valore universale e perpetuo. Oggi le persone semplicemente inventano, fanno da sé senza norme che li precedono, senza programmi che li coartino: un andazzo che sembra travolgere tutto, perfino la religione che non è più qualcosa che s’impone alla libera volontà, ma qualcosa che si sceglie a seconda dei gusti e delle preferenze, magari attingendo qua e là, come api che succhiano il loro miele da tutti i fiori che incontrano. Si parla per questo, con fondatezza, di “religione-fai-da-te”. Un dato di fatto, anche se sorprendente e sconcertante.
Un altro dato di fatto, meno visibile, ma certamente esistente e ormai diffuso a livello generale, è il pensiero debole. Si è partiti dalla filosofia, ci si è ragionato e scritto a diritto e a rovescio, ma, lentamente e senza che ce ne accorgessimo, ci ritroviamo tutti indeboliti di ragione e di pensiero. È la condizione liquida applicata alle facoltà razionali, tipiche dell’uomo. Una miscela paurosa, perlomeno pericolosa, quella che è nata dalla fusione di queste due caratteristiche del nostro tempo. La società liquida e il pensiero debole, per un verso e per un altro, facendosi forza a vicenda, completandosi nella loro unione, col contributo determinante dei mezzi di comunicazione sociale, asserviti alla mentalità del tempo e ai suoi dominatori, hanno finito col creare la figura tipica dell’uomo di oggi. Non sarebbe poco, nemmeno per noi, che vogliamo restare su un piano specificamente religioso. Il guaio è che, certamente anche con la nostra complicità e il nostro silenzio, le due tendenze hanno finito col creare anche il cristiano di oggi. Non tutti i cristiani, grazie a Dio, ma il cristiano medio, quello che s’incontra normalmente, magari anche nelle stesse nostre chiese e, qualche volta almeno, perfino nelle nostre associazioni, che pure sono destinate all’approfondimento, allo studio, alla consapevolezza, alla maturità.
È il cristiano che magari dice anche con orgoglio di essere tale, che ignora gli stessi fondamenti della propria fede, che non conosce e nemmeno legge il Vangelo o non ne trae un minimo profitto sul piano delle idee e della prassi, che ignora del tutto il pensiero sociale della chiesa, che alla voce di questa, perfino del papa (pure teoricamente ammirato ed esaltato) preferisce quello del leader politico del momento, che sui temi scottanti di oggi, come l’immigrazione, la povertà diffusa, la disuguaglianza scandalosa, ragiona come i non cristiani, sul filo del razzismo e della demagogia e comunque si comporta nella stessa maniera, che taccia di politicanti coloro che cercano di applicare il Vangelo ai problemi dell’uomo e della società, che pensano al cristianesimo come alla religione cosiddetta dell’anima, senza per niente incidere sulla vita personale e sociale. Forse all’inizio del nuovo anno pastorale c’è da riflettere seriamente sulla nostra situazione. Anche in casa nostra, la società liquida e il pensiero debole hanno bisogno di una energica cura.
Dai “signori” al “Signore” e non viceversa.
Giordano Frosini

mercoledì 9 agosto 2017

Ricordo di un Amico, Mario Agnoli

Ci ha lasciato il nostro amico Mario Agnoli, ex segretario del Comune di Pistoia, esperto di diritto amministrativo e stimato autore di romanzi e libri di poesia. Per trentacinque anni è stato alla Presidenza della commissione Poesia del Premio letterario "Giorgio La Pira" promosso dal nostro Centro Studi. Esprimiamo le più sincere condoglianze alla famiglia a cui commossi ci uniamo in un profondo abbraccio.

sabato 22 luglio 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

Un invito urgente all’intero mondo cattolico


In un momento di grande confusione politica e di latitanza del pensiero sociale cristiano, è troppo rivolgere a tutti l’invito a ritornare sui propri passi, a giudicare con estrema franchezza il danno che si sta consumando sotto i nostri occhi, con le evidenti e innegabili responsabilità della comunità cristiana, che sembra avere dimenticato gli orientamenti di un passato fecondo e luminoso che ormai rimane alle nostre spalle? È tempo di riprendere in mano il ricco materiale tramandatoci dalla tradizione, con tutto l’apparato di riflessioni, di orientamenti, di propositi elaborati dal magistero periferico e centrale della chiesa, dai teologi di ogni continente, dai politici di ispirazione cristiana. Dimenticare tutto questo è stata una vera e propria follia che ha danneggiato non solo la chiesa ma l’intera società. Coloro che per ragioni di ufficio hanno fatto la raccolta di questo immenso materiale hanno riempito gli scaffali delle loro biblioteche di documenti, pubblicazioni, progetti, esortazioni, direttive, a cui purtroppo fa oggi riscontro la povertà di un raccolto misero e striminzito che soltanto i ciechi non riescono a vedere. L’eredità che stiamo raccogliendo è quella di un popolo sparpagliato e senza punti di riferimento che nemmeno sembra rendersi conto di quanto sta avvenendo intorno a lui e dentro di lui.

Se guardiamo all’Europa, non possiamo che ricordare con rammarico gli ideali che hanno ispirato e guidato statisti cattolici di grande levatura, quali Alcide De Gasperi in Italia, Konrad Adenauer in Germania, Maurice Schuman in Francia, da considerarsi veri e propri padri dell’Europa contemporanea, valorizzavano in chiave moderna una storia dominata dai valori e dagli ideali di una grande civiltà cristiana. Dove è finito il loro insegnamento e la loro testimonianza? In Italia, con la fine della cosiddetta unità politica dei cattolici, un’esperienza che non poteva durare in eterno, sembra quasi che sia venuta meno quell’ispirazione cristiana che invece doveva guidare il pensiero e l’azione dei cattolici. Sono rare le luci che rimangono accese in un mondo ormai dominato dagli egoismi pubblici e privati e dalle ideologie neoliberiste, ormai accettate più o meno supinamente da tutti. E quei pochi che ancora rimangono non riescono a trovare un seguito significativo e convinto. E intanto le povertà aumentano, la disoccupazione non cala, i pochi miglioramenti che pure si registrano non convincono ancora un’opinione pubblica manifestamente delusa e scontenta. In questo clima rarefatto, politici autenticamente cristiani cercansi, mentre crescono idee e movimenti che di cristiano hanno poco o nulla. C’è di che battersi il petto.

Uno dei più incisivi documenti del magistero sociale della chiesa, l’Octogesima adveniens di Paolo VI, dopo aver tracciato magistralmente i compiti dei cristiani nella città degli uomini, concludeva con un invito pressante all’azione, purtroppo più attuale che mai. Fra l’altro, ripetendo quanto era stato già detto in precedenza nell’enciclica Populorum progressio, segno evidente che l’appello era già  caduto nel vuoto: “È a tutti i cristiani che noi indirizziamo, di nuovo e in maniera urgente, un invito all’azione. Nella nostra enciclica sullo sviluppo dei popoli, noi insistevamo perché tutti si mettessero all’opera: ‘I laici devono assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell’ordine temporale. Se l’ufficio della gerarchia è d’insegnare e di interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della loro comunità di vita’. Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare… È troppo facile scaricare sugli altri le responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria la conversione personale”.

A tutti, gerarchia e laicato, si impone un atto di umiltà e di riconoscimento delle proprie colpe e trascuratezze. La prima conversione necessaria riguarda le proprie convinzioni, perché purtroppo l’esperienza passata e recente ci mostra con dolorosa chiarezza che in molti, in troppi, perfino in coloro che appartengono alle categorie dirigenziali del corpo della chiesa, non c’è la persuasione della bontà, della bellezza, della necessità, della superiorità di un pensiero sociale derivante dai principi fondamentali della rivelazione cristiana, rispetto ad altre fonti di pensiero che, se appartengono alla moda del giorno, non hanno in sé né la forza né la garanzia di verità che per il credente ha l’eterna parola di Dio trasmessa e conservata nella chiesa. È a questa che appartiene il diritto di giudicare le scelte pratiche del cristiano, anche di carattere sociale e politico. La pretesa di sottoporre  a giudizio, in nome di ideologie estranee e perfino contrarie, il pensiero della chiesa è una vera e propria aberrazione da non prendere nemmeno in considerazione. Eppure questo è successo nel passato e succede tuttora, pure nell’attuale riemergere delle ideologie estremiste, troppo presto date definitivamente per scomparse.

Il pluralismo politico dei cattolici in politica va certamente salvaguardato, ma nei limiti imposti da queste ragioni costitutive e fondamentali. C’è un pluralismo legittimo e un pluralismo illegittimo: il pluralismo è soltanto nell’applicazione dei principi, i principi non appartengono alla libera scelta, ma si impongono indistintamente a tutti. Il momento delicatissimo che stiamo attraversando impone a tutti una vigilanza estrema perché non si ripetano errori del passato. La via da seguire è quella già percorsa dai nostri predecessori nel momento della rinascita della democrazia nel nostro paese. Le ideologie fallite disastrosamente nel nostro passato non hanno nessun diritto di riemergere: la storia le ha condannate per sempre. Sarebbe veramente abnorme che esse riemergessero col contributo dei cattolici.

Le conclusioni sono facili, almeno sulla carta. Si riprenda coscienza delle responsabilità formative da parte della comunità cristiana. Ognuno in questo settore riprenda il posto che gli spetta di diritto e di dovere. Più che un impegno dei singoli, è un dovere  dell’intera comunità. Il passato ci può fornire le idee, gli schemi, le vie da seguire. I maestri, i testimoni, gli educatori sono ancora nella nostra memoria e premono con forza e dolcezza perché se ne segua l’entusiasmo e l’esempio. Un valido codice di riferimento ce lo offre ancora Paolo VI nel suo documento prima citato. Eccolo: “Pur riconoscendo l’autonomia della realtà  politica, i cristiani sollecitati ad entrar in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e il Vangelo e di dare, pur in mezzo ad un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini”.


Giordano Frosini

sabato 8 luglio 2017

Editoriale settimanale di mons. Giordano Frosini uscito su " La Vita"

Papa Francesco e il lavoro

Il tema del lavoro è sempre all’ordine del giorno. Già Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem Exercens, ravvisava in esso il punto centrale dell’intera questione sociale e anche Papa Francesco, nel suo discorso del 28 maggio con i lavoratori nel porto di Genova, ha parlato di esso come di una “priorità cristiana, una priorità nostra e anche una priorità assoluta”.
Anche Romano Prodi, ha dedicato il suo ultimo libro “Il piano inclinato” al tema del lavoro a cui dobbiamo restituire valore e peso politico.
Se il lavoro è il tema di sempre, lo è in particolare oggi con il fenomeno della disoccupazione che sta crescendo anche in queste ultime ore. La visione di papa Francesco è una visione del lavoro considerato come elemento fondamentale della persona umana. “Se pensiamo alla persona senza lavoro diciamo qualcosa di parziale, di incompleto perché la persona si realizza quando fiorisce nel lavoro”. Il lavoro cambia la natura e costruisce l’uomo, nella sua intelligenza, nella sua volontà, nel suo sentimento, nella sua solidarietà. La disoccupazione è uno dei peggiori fenomeni del mondo contemporaneo.
“La persona -afferma il Papa- fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia.” Elemento dunque di formazione personale e di realizzazione sociale.
Le deficienze attuali dell’economia del lavoro richiedono, secondo il Papa, norme di severità assoluta: un vero e proprio nuovo ordinamento sociale. Così coloro che guadagnano di più, sia nel lavoro che nelle pensioni, devono pensare a coloro che, nell’attuale situazione economica e politica, mancano del sufficiente per la loro vita e per quella delle loro famiglie, rinunciando a interessi esorbitanti che non hanno giustificazioni di sorta: una vera e propria economia sociale e di mercato, dettata dai valori dell’uguaglianza, della giustizia e della solidarietà.
Qualcuno ha sorto il naso perché il papa sembra si sia spinto troppo oltre nelle sue richieste. Vogliamo capire queste obiezioni, ma insieme intendiamo difendere il papa nelle sue affermazioni che nascono semplicemente dall’attuazione dello spirito evangelico.
Il papa ricorda che il 45% dei giovani italiani dai 25 anni in giù, non hanno lavoro. Un dramma nazionale che deve scuotere le coscienze, in particolare dei cristiani. Il dovere del sindacato è quello di pensare alla giustizia, tutti insieme. “È il momento che i più ricchi si abituino a rinunciare ai diritti che l’economia liberistica ha fissato per i loro guadagni. C’è bisogno di una conversione generale: fate anche voi un passo in meglio nel vostro lavoro, perché sia migliore.”
La voce del papa si è fatta fioca per le sue ripetizioni e incide profondamente sui problemi sociali dell’umanità. La cosa più drammatica è che i primi a non ascoltarla sono i cattolici che, da tempo, hanno messo l’insegnamento sociale della chiesa nel dimenticatoio. Siamo estremamente preoccupati per il futuro del nostro paese, se non si ricorre ai principi sociali della chiesa, i soli che possono garantire un futuro migliore. Non c’è bisogno di essere né contenti, né scontenti dei risultati delle ultime elezioni. C’è soltanto da preoccuparsi di quanto sta accadendo intorno a noi, per la mancanza di pensiero sociale della chiesa, e per il fatto che riemergono gli eterni mali della nostra società, insidiata più di sempre dall’egoismo e da una certa rinascita delle ideologie totalitarie, di destra e di sinistra. Il grido di allarme deve risuonare dovunque: il papa indica la strada che il popolo cristiano deve portare a compimento.

Giordano Frosini

venerdì 30 giugno 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

Una lacuna da colmare

Una tornata elettorale non priva di sorprese, che lascia dietro di sé molti interrogativi, molte discussioni e molte polemiche. La parte prettamente politica non ci interessa in questo momento, anche se naturalmente non si deve dimenticare che in essa sono direttamente coinvolte questioni di carattere morale, che da parte nostra non si possono disattendere in nessuna circostanza. Una domanda di questo genere però possiamo permettercela, lasciando poi al lettore attento la possibilità e il diritto di dare una sua personale risposta: quanto sull’esito del voto ha influito la discussione ancora accesa sul cosidetto diritto dello “ius soli”? Non si potrà negare che sotto domande di questo genere è nascosto, ma non troppo, un problema di carattere morale, al quale almeno un cristiano non può rimanere insensibile.
Ma la nostra attenzione in questo momento è rivolta a una questione più generale e, insieme, più bruciante e più coinvolgente: Dove è finito il pensiero sociale della chiesa? Se ne sono forse smarrite le tracce, se di esso la comunità cristiana non si ricorda nemmeno in circostanze di straordinaria importanza come le elezioni a cui tutti sono chiamati a partecipare? Su un tema così caldo e scottante come la città, il comune, il paese, il mondo cattolico non ha proprio nulla da suggerire? E quanti appartenenti a esso facevano parte della multiforme congerie di nomi che riempivano, fino a confondere l’elettore, le schede di votazione? Tradita una gloriosa tradizione e tradito anche il pensiero ufficiale della chiesa che, specialmente in questi ultimi anni, si è ripetutamente e seriamente fatto sentire? Una storia che scotta fra le mani.
Inutile riportare i grandi e gravi insegnamenti del concilio Vaticano II e di tutti i papi post-conciliari senza eccezione, finendo a papa Francesco che, fra l’altro proprio in questi giorni, aveva condannato con parole di fuoco certi atteggiamenti che qualcuno vorrebbe far passare come auteticamente cristiani o, almeno, come più cristiani. Si tratta dell’atteggiamento qualificato come quello del “soprannaturalismo disumanizzante”, così descritto: “Ci si rifugia nel religioso per aggirare le difficoltà e le decisioni che s’incontrano. Ci si estranea dal mondo, vero campo dell’apostolato, per preferire devozioni. È la tentazione dello spiritualismo. Ne deriva un apostolato fiacco, senza amore. ‘I lontani non si possono interessare con una preghiera che non diviene carità, con una processione che non aiuta a portare le croci dell’ora’”. La citazione interna è di don Primo Mazzolari, Il prete rivoluzionario a cui papa Francesco era andato a far visita.
È vero che esiste anche il pericolo opposto (quello del terrenismo e della secolarizzazione), ma non possiamo dimenticare che lo spiritualismo intimistico e individualistico è una delle malattie più frequenti all’interno della comunità cristiana. Le parole dure ora riportate richiamano alla mente i versi infuocati di Charles Péguy, il poeta della speranza, dell’incarnazione e della città armoniosa, che così, a suo tempo, senza batter ciglio, scriveva:
“Non mi piacciono i beati
quelli che credono di essere della grazia
perché non hanno forza per essere della natura.
Quelli che credono di essere nell’eterno
perché non hanno il coraggio di
essere nel tempo.
Quelli che credono di essere con Dio
perché non stanno con le persone.
Quelli che credono di amare Dio
perché non amano nessuno.”
Occorre recuperare insieme la capacità sintetica suggerita dal concilio, quando affermva che “la dissociazione, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata fra i più gravi errori del nostro tempo. Non si crei perciò un’opposizione artificiale tra le attività professionali e sociali da una parte e la vita religiosa dall’altra. Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso e mette in pericolo la propria salvezza eterna”. Non si possono dimenticare parole forti come queste. Alla gerarchia compete il dovere di trasmetterle e farle accettare in nome di Dio e della chiesa; ai laici l’impegno concreto di “iscrivere la legge divina nella vita della città terrena”, “facendosi guidare dallo spirito del Vangelo”. Un bel programma per i giorni avvenire. Nessuno ha il diritto di trascurarlo e di metterlo in disparte in favore di altre scelte, da lui ritenute prioritarie. Non si tratta di semplici affermazioni personali e per questo discutibili e anche trascurabili, ma di orientamenti ufficiali della chiesa, che in tal modo ripete e traduce autoritativamente le parole del Vangelo per i nostri giorni. Non si tratta nemmeno di espressioni troppo forti o troppo “di sinistra”, per cui qualcuno potrebbe sentire il bisogno di edulcorarle o di mediarle. Il pluralismo è all’interno del principio ma il principio si impone a tutti.

Giordano Frosini

sabato 10 giugno 2017

La città armoniosa, editoriale di mons. Giordano Frosini dal settimanale "La Vita"

Le città hanno anche i loro poeti. Fra questi, impossibile non ricordare il grande Charles Péguy, morto nella prima grande guerra sul fronte della Marna, dimenticato nel suo tempo e riscoperto più tardi soprattutto per opera di alcuni teologi cattolici, che videro in lui un impareggiabile cantore della speranza cristiana, autore di una originale e utopica riflessione dal titolo la “Città armoniosa”, di cui più tardi Giorgio La Pira raccolse il fascino e l’ispirazione. La città armoniosa è la città della solidarietà, della fraternità, l’esaltazione convinta del bene comune, la casa del bene comune, se vogliamo, per sineddoche, il bene comune in se stesso, come concentrato e solidificato nelle sue mura. “La città armoniosa – afferma – ha per cittadini tutti i viventi che sono anime, tutti i viventi animati, perché non è armonioso, perché non conviene che vi siano in essa anime straniere, perché non conviene che vi siano in essa viventi animati stranieri”. Anche se proviene da lontano, nessuno nella città è forestiero: essere straniero nella città è una contraddizione in termini. In essa tutti senza eccezione, sono legati da vincoli di amicizia, di collaborazione, di affetto, mossi da intenti collettivi, che si riassumono nel concetto fondamentale di bene comune, da intendersi, secondo il concilio Vaticano II, non tanto come la somma dei beni di ciascuno, ma “come l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi come ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”.I cittadini sono uniti insieme da vincoli strettissimi, le loro anime individuali sono collegate fra loro fino a formare insieme un’anima collettiva. Per questo la città armoniosa non è la città della rivalità, la città della gelosia, la città della contesa: anche il suo pluralismo religioso, culturale e politico è contenuto nei limiti della comunione, della collaborazione e della ricerca delle unicke finalità comuni. C’è un’anima della città e “quest’anima vive e realizza la sua forma senza deformare le anime individuali e le anime familiari e le anime amicali da cui è nata”. Nella città armoniosa tutto riposa nell’ordine e nell’armonia, senza deroghe e senza sbavature.In questa città spira il vento dell’utopia. Per questo il suo ideatore è sempre stato considerato come uno dei grandi utopisti della storia, che ispira i suoi pensieri alla rivelazione della Gerusalemme celeste, la madre di tutte le utopie che hanno punteggiato la nostra storia. Egli sa bene che questa città nel mondo non esiste, non esisterà mai, tanto è il peso della materia, della “carne”, dell’egoismo che l’uomo porta sempre con sé. Ma la funzione dell’utopia è quella di spingere sempre in avanti, nella convinzione che l’ideale prospettato non sarà mai totalmente raggiunto, ma che, nonostante questo, esso potrà e dovrà sempre esser avvicinato. L’utopia è spinta, è proiezione, è calamita che attira e non concede riposo. Un richiamo e un impegno diuturno per chi abita la città e per chi si accinge a presiederla e a guidarla. Un onore certo, anzi un grande onore, ma anche un onere, un servizio, una donazione che chiama in causa l’intelligenza, la volontà, il cuore, il sentimento, l’intera personalità con tutte le sue ricchezze e potenzialità. Per il cristiano in particolare l’attività politica è un esercizio di carità e un contributo di speranza, una delle attività più nobili, se non la più nobile, delle attività umane.

La società in crisi moltiplica la necessità del rinnovamento delle nostre città. La politica non potrà che rinascere anzitutto laddove è nata: cioè nella mura domestiche delle città che noi abitiamo giorno per giorno, il luogo della nostra storia collettiva e individuale, la patria dei nostri sogni e dei nostri progetti. Politica è propriamente l’arte e la scienza di edificare e governare la polis, cioè la città. Il Bene Comune del paese nel suo intero è la somma dei beni comuni faticosamente realizzati nelle nostre città, grandi e piccole, compresi i nostri paesi, dove più forti si fanno i vincoli di amicizia, di fraternità o addirittura di parentela. Un augurio che nasce spontaneo nel momento in cui si stanno rinnovando le amministrazioni locali, accompagnato da parte di tutti dall’impegno di partecipazione responsabile all’evento con la scelta oculata delle liste e dei candidati, che ci devono guidare nel nostro futuro.

Giordano Frosini

venerdì 19 maggio 2017

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"

“Uscite da Babilonia”

Per la Bibbia, in particolare per l’Apocalisse, Babilonia è la città del male, del male in assoluto, del male totale: il covo dell’idolatria e dell’odio, del turpiloquio e della bestemmia, della prostituzione e della superbia, della divisione e della discordia; la città ebbra di sangue innocente che, adorna di pietre preziose e di ori luccicanti, siede sopra l’orrendo corpo di una bestia scarlatta, le cui sette teste e le dieci corna sono ripiene e coperte di nomi empi e blasfemi. Una città sconfitta e annientata negli anni lontani, la cui immagine però si è ripresentata minacciosa e terribile in alcuni passaggi particolarmente tragici della nostra storia.
Non è questo il male normale delle nostre città, ma un male più sottile, meno drammatico, un male democratico si potrebbe dire, un male più educato, meno eclatante, più subdolo e sotterraneo, quasi invisibile, fino al punto che si può tranquillamente vivere in esso senza farci caso e prenderne piena coscienza. Anche di queste città parlano i testi della sacra Scrittura, naturalmente ripudiandole e condannandole. Fuggire dalle prime come dalle seconde è un dovere dell’uomo redento e di tutti coloro che hanno a cuore le sorti delle città, nell’un caso e nell’altro minacciate nella loro stessa esistenza. Non si tratta evidentemente di un’uscita fisica, di un trasferimento materiale e corporeo, ma di un cambiamento morale, di una vera e propria conversione spirituale, di cui quasi nessuno sembra preoccuparsi, nemmeno coloro che si candidano a presiederne le sorti e il funzionamento.
Si voglia o no, il male radicale delle città rimane l’egoismo, l’individualismo, l’insensibilità, l’indifferenza, con tutte le specificazioni che ne possono seguire: discordie, inimicizie, divisioni, corruzione, immoralità, disuguaglianze assurde, maleducazione, prepotenze, sporcizia, rumori molesti, dimenticanza dei poveri, dei senza voce, dei meno fortunati… e via di questo passo. L’elenco è quasi infinito e ciascuno, sulla base della propria esperienza, potrebbe aggiungere qualcosa. I mali della società si danno convegno e hanno la loro rappresentanza entro le mura dei nostri agglomerati urbani. Il tutto nella parte, lo specchio e il simbolo dell’intera società. Chi vuol conoscere l’intero lo guardi da questo punto di vista. Anche l’urbanistica, l’architettura, la viabilità, le stesse case ne riflettono le sembianze di fondo, portano per chi li sa leggere i segni della disarmonia e del disordine di base.
Salvare le città, ritornare agli ideali che determinarono la loro nascita, ricercarne e riviverne lo spirito delle origini, è il dovere pressante su cui tuttisono chiamati a riflettere, specialmente nei momenti in cui qualche occasione speciale, come le elezioni amministrative, costringono a rivedere il passato e a programmare il futuro. La città ideale, come la Gerusalemme biblica, è un’utopia che spinge sempre in avanti e che non sarà mai perfettamente raggiunta, tanta è la carica di virtù, di perfezione e di bellezza che essa porta con sé. La Gerusalemme celeste è la città del futuro finale, della comunione perfetta, della pace totale. Le utopie hanno sempre le dimensioni della città che si chiamerà Città del sole o Città armoniosa, o Città dell’uomo. Per il credente specialmente il modello rimane quello della Gerusalemme celeste: “L’architettura della città dell’uomo – diceva Giorgio La Pira – nasce dalla contemplazione e dalla imitazione della città celeste”. Un ideale che attraversa tutta quanta la storia.
Le tante definizioni della città che si sono accumulate nel tempo ci aiutano a riscoprire il suo valore e il nostro impegno. Ne riprendiamo una dello scrittore politico cinquecentesco, Giovanni Botero, che così si esprimeva nella lingua del tempo: “Città si addimanda una ragunanza d’uomini ridotti insieme per vivere felicemente”. Ci si unisce insieme per aiutarci vicendevolmente in un rapporto solidale e complementare, di modo che la soddisfazione completa delle proprie necessità, impossibile al singolo isolato e nel villaggio rurale, risulti possibile col contributo di tutti, nell’amicizia e nella fraternità. Se manca a questo scopo istituzionale, la città smarrisce se stessa. Un irrinunciabile compito anche per la chiesa.
Giordano Frosini

sabato 13 maggio 2017

Le due città

Editoriale di mons. Giordano Frosini uscito sul settimanale "La Vita"


Fra tutte le scienze e discipline che si stanno interessando al problema urbano, c’è anche la teologia della città che, ispirandosi particolarmente al libro dell’Apocalisse (inizio e riferimento di ogni utopia umana), ha scritto pagine meravigliose nel corso della storia, cominciando dal grande Agostino, passando per Tommaso d’Aquino, per finire ai moderni fautori del personalismo comunitario, soprattutto francese e italiano. Una riflessione che ha poi suggerito idee e orientamenti ai tecnici della città, sociologi, psicologi, urbanisti, architetti, in genere costruttori, e che, nel tempo della radicale secolarizzazione, è stata messa praticamente in disparte con  danni tutt’altro che indifferenti per l’oggetto in questione. Anche diverse chiese locali, particolarmente nei tempi che precedono le elezioni amministrative, hanno preso parte al dibattito, offrendo a tutti suggerimenti preziosi di riflessione e di revisione, che poi uomini di grande spessore culturale hanno cercato di mettere in pratica, inserendosi direttamente nell’agone politico con una loro testimonianza luminosa, che è un imperdonabile errore ignorare e mettere oggi in disparte. Una vera e grave perdita di cui sono soprattutto responsabili i cattolici, cominciando dai laici, ma non escludendo affatto coloro che all’interno della chiesa occupano il ministero della presidenza. La riconquistata laicità della politica, che comincia proprio dalla polis, cioè dalla città, non va intesa come abbandono o dimenticanza dell’ispirazione cristiana, che il battezzato si porta sempre con sé. È fin troppo evidente che lo spirito evangelico è latore di principi e di orientamenti che urtano frontalmente contro certi comportamenti in atto nell’attuale universo politico, visto in tutta la sua comprensione ed estensione. Laicità e ispirazione evangelica per i credenti camminano inscindibilmente insieme, come due capitoli che si intersecano e si completano a vicenda a illuminare la loro attività sociale: è dalla loro congiunzione che nasce la singolarità specifica di ogni politica meritevole dell’appellativo di cristiana. Certo, se di questo non si parla, se, su un tema così importante specialmente in questo momento di confusione e di disgregazione, non si divulgano gli insegnamenti che la chiesa ha elaborato e trasmesso soprattutto negli ultimi decenni della sua storia, è inutile poi sperare che le cose si assestino automaticamente da sole. Guardando al recente passato, nessuno può negare che le cose sono notevolmente peggiorate. Un notevole ritorno all’indietro, un peggioramento deleterio, una vittoria dei cristiani sostenitori di quegli orientamenti spiritualistici e intimistici delle cui condanne sono pieni i documenti sociali (e non solo) della chiesa. È questo decisamente il tempo di ritornare su noi stessi, sul nostro passato migliore, su quanto di bello e di buono hanno realizzato coloro che ci hanno preceduto. Il tempo di prendere pienamente sul serio i richiami perentori del Regno e gli insegnamenti lucidissimi del concilio Vaticano II.

Il tema delle due città è semplice e suggestivo, sia che il termine “città” venga preso nel suo senso specifico di agglomerato urbano, sia che con esso si alluda alla società come tale. C’è una città del male e una città del bene; una città dei valori e delle virtù, una città dei disvalori e della morale; una città dell’individualismo, dell’egoismo e della disuguaglianza e una città della solidarietà, della fraternità e dell’amicizia che, come dice l’antico proverbio, o trova o mette tutti sul piede di piena parità. Preferiamo definire così le due città, anziché rifarsi direttamente a Dio e al suo contrario, come si faceva una volta, per amore della laicità, anche se siamo convinti che la trascendenza fa parte del concetto di uomo come tale e che, senza Dio, tutto rimane più aleatorio e difficile, anzi tutto è possibile. Dio non è una variabile asettica e insignificante ma il fondamento assoluto dell’ordine, dell’amore e della convivenza ideale. E qui entra in questione soprattutto l’intervento diretto della chiesa, in genere delle aggregazioni religiose.

Abbiamo sentito in queste ore il presidente eletto della Repubblica francese invocare il ritorno dell’era dei Lumi; è augurabile che egli alluda alla parte buona che tale cultura certamente include, ma non alla sua fase totale e tronfia che gli stessi suoi fautori hanno rinnegato e che ha celebrato solo da poco il dramma del suo immane fallimento. Anche i valori dell’Illuminismo trovano il loro vero fondamento in un contesto diverso.

Giordano Frosini